<- Post precedente [Dove Luca Mercalli ci intrattiene sulle questioni di cambiamento climatico. Qui ci interroghiamo, cosa può dirci la nostra pratica su questo tema?]
Taiji nel suo insieme mi è sempre apparsa come un’arte di sottrazione, sottrazione di movimenti inutili, di pensieri inutili, di distanze e di parole inutili, in breve di sottrazione del superfluo: in questo è esattamente un’educazione al risparmio, all’ottimizzazione e al cammino, pratico e concreto, verso l’essenzialità.
Non di un’essenzialità astratta e discussa all’infinito, ma di un’essenzialità che ci riguarda dalle viscere fino all’esplicazione di ogni gesto, alla selezione delle parole e dell’ascolto, fino alla pratica del silenzio, che, giusto per puntualizzare, non è non parlare – che ancora è azione – ma bensì essere silenzio nell’essenzialità dei nostri gesti e del loro significato tanto inverbalizzabile quanto chiaro.
Cosa si può sottrarre a un gesto facendo sì che il gesto rimanga tale e che la sua armonia non venga meno?
Questa è domanda alla quale ogni buon praticante non solo non si sottrae ma incessantemente si pone, pulendo del superfluo ogni gesto, rendendolo vuoto, presente e contemporaneamente ferreo.
Fuori cotone, dentro metallo, muovere 100 kg con 1 gr, le allusioni a questo concetto nelle massime nell’arte abbondano.
A questo punto traiamo le conseguenze di questa pratica: come all’interno così all’esterno si diceva in alchimia, proiettando all’esterno questi principi avremo il collegamento che andavamo cercando sul senso generale della nostra pratica e del come il nostro comportamento potrebbe essere portato fuori dalla palestra, e dai nostri cuori, fino alla società e alle relazioni che naturalmente vi instauriamo.
Cosa si può sottrarre a una società facendo sì che rimanga civile e che la sua funzione di sotentamento collettivo non venga meno?
Innanzi tutto mostrando la possibilità di eliminare il superfluo rimanendo con l’essenziale, o avvicinandocene senza vergogna: ecco svelato una parte di ciò che comunemente caratterizziamo – o chiamiamo – presenza, mostrare in pubblico, senza troppi dibattimenti che ciò non solo è possibile, ma anche necessario e farlo senza sofferenza, senza rinuncie alla propria umanità, alla bellezza, anzi incrementandole evitando di compromettere ciò che troviamo necessario alla nostra felice esistenza.
Mentre nella pratica individuale questo problema si scioglie con l’ascolto, l’attenzione e talvolta nel confronto con gli altri praticanti, nelle questioni sociali la faccenda è complicata dal fatto che l’ssenzialità e la necessità sono frutto di un processo politico di decisione collettiva -oltre che storico e culturale – che le definisce e le differisce nel tempo a seconda di come le stesse comunità si orientano nei rapporti che intercorrono al loro interno.
Anche se con un inevitabile scarto linguistico e di studio, e quindi anche di appropriatezza delle conoscenze, si può impostare il problema, passando dalla sfera individuale a quella collettiva, di cosa sia essenziale cosa no, a cosa si possa rinuciare rimanendo ivili e umani? Si può non cedere alle lusinghe della forza, della potenza e per noi oggi del continuo accumulo? Che cosa può – e deve – essere lasciato cadere perchè improvvisamente si diviene consapevoli che impiccia anzichè sostenere, come un eccesso di forza in una serie di pugni che ci stanca prima del dovuto?
Eccoci: l’addestramento nell’Arte del Taiji aiuta a riconoscere l’eccesso e ad evitarlo, quando non addirittura ad usarlo a nostro vantaggio, nella sicurezza che togliere forza inutile ad un gesto contribuisce a migliorarne tutta la dinamica, così nella società possiamo riportare questo processo per eliminare o diminuire l’impatto ecessivo di comportamenti troppo costosi a livello energetico [ehi, sto parlando di petrolio e gas!] quando non sono necessari alla stessa sopravvivenza, snellire e rendere meno incontrollabili gli effetti indesiderati che inevitabilemnte graveranno sulla vita di tutti, di conseguenza anche sulla nostra; saper riconoscere quali di questi comportamenti costosi sono indispensabili, come le cure mediche, il cibo, delle case sufficientemente calde e delle relazioni piacevoli, per poter continuare a parlare di civiltà e debbano quindi essere scelti e sostenuti così nella sfera pubblica come in ogni scelta personale.
Ora la domanda è se siamo in grado di portare questa disciplina da dentro di noi a fuori di noi, trasformandola in etica, discussione o politica dei gesti quotidiani che ci permettano, in questo caso si radicalmente, di lasciar andare ciò che non c’entra con l’essenzialità del nostro cammino, sia personale che di comunità.
Ogni passo in questa direzione è un passo fatto insieme verso la soluzione di questo continuo insensato accumulo di scarti dell’inutile, contemporaneamente un avvicinamento alla nostra essenzialità e infine, ma non per importanza, un allenamento continuo della nostra presenza, sia dall’esterno verso l’interno che viceversa.
[Parte 3 -ovvero la coda – in arrivo]